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Violette, una donna anziana, con la memoria ripercorre e racconta gli anni della sua giovinezza, quando nel 1852, a soli 17 anni, è testimone della deportazione e uccisione di tutti gli uomini del suo paese da parte delle truppe dell’Imperatore Napoleone III. Le donne, rimaste sole, siglano un patto inscindibile: il primo uomo che si presenterà all’orizzonte diventerà il compagno di tutte, il seme del villaggio.
C’è qualcosa nel racconto di Violette e nel modo in cui lo fa che travalica ogni possibile distanza geografica, culturale e storica. C’è di universale un racconto sull’amore e sulla perdita, c’è di profondamente nuovo e assolutamente attuale una definizione del femminile, dei suoi bisogni, delle sue capacità e dei suoi limiti.
Le donne raccontate da Violette e Violette stessa sono e vogliono essere madri, ma non sono oggetti di una comunità patriarcale, maschile e maschilista; vogliono essere amanti, ma si assumono la responsabilità politica e sociale del loro “amore”, diventando agenti attivi e consapevoli della propria sessualità. Quando l’uomo si materializza, però, non riescono a prescindere dalla naturale ricerca del desiderio, del piacere ed infine dell’amore.
Nel mondo che Violette racconta, l’identità femminile è composta quindi non da esseri passivi e mansueti, ma da donne rumorose, arrabbiate, sovversive.
Il suo però non è un femminismo adolescenziale, ma il racconto di formazione di una donna nella sua crescita fino all’età adulta. Al centro di una scena essenziale caratterizzata da pochi oggetti di uso domestico che rievocano un immaginario contadino di fine Ottocento, Violette ritorna un’adolescente che fa rumore, sbatte i piedi, cambia stato d’animo repentinamente, per poi crescere, scoprire l’amore, diventare madre ed infine di nuovo un’anziana al tramonto della sua vita.
Portare a teatro la sua storia e quella del suo villaggio, quindi, nasce dalla necessità di raccontare il vissuto femminile nella sua complessità, cercando di mostrare, per quanto sia nelle nostre possibilità, la naturalezza delle sue contraddizioni e l’universalità delle sue specificità. (Gaia Adducchio)
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